Il 2007 fu un’ottima
annata per il Messico. Alla gala degli Oscar, la notte del 25 febbraio, il (nuovo)
cinema messicano veniva ufficialmente riconosciuto da Hollywood e dal mondo
intero con ben dieci esponenti candidati al prestigioso premio: l’attrice Adriana
Barraza, lo sceneggiatore Guillermo Arriaga, i registi Alejandro González
Iñárritu, Alfonso Cuarón e Guillermo del Toro, i direttori della fotografia
Guillermo Navarro ed Emmanuel Lubezki, lo scenografo Eugenio Caballero, il
montatore Alex Rodríguez e il tecnico del suono Fernando Cámara.
Si credeva, allora,
che il cinema nazionale avrebbe dato molto di più negli anni a seguire, che
avrebbe scoperto e lanciato a livello internazionale nuovi talenti per
rivivere, in tempi moderni, la famosa Época
de Oro. Invece, a parte gli applausi per Biutiful di Iñárritu, entrato nella cinquina dei nominati al
miglior film straniero nel 2010, l’entusiasmo è andato via via scemando, tra
una pandemia influenzale – H1N1 – e sei anni di necrologi – 60.000 morti (ufficiali)
risultati dalla guerra al narco di
Felipe Calderón.
Non che si sia smesso
di produrre film da questa parte del mondo, solo che le produzioni
cinematografiche messicane hanno attirato meno l’attenzione dell’industria
internazionale. Fatta eccezione per Cannes, che quest’anno ha premiato Carlos
Reygadas come miglior regista di Post
Tenebras Lux e Después de Lucía di
Michel Franco come miglior film nella categoria Un Certain Regard, in altri
circuiti gli addetti ai lavori messicani non sono riusciti a ricevere la stessa
accoglienza (anche se va detto che un totale di quarantadue produzioni
nazionali hanno guadagnato qualche premio in sordina in giro per il mondo). Tant’e
che alla corsa agli Oscar partecipa il solo José Antonio García, che con John
Reitz e Gregg Rudloff ha firmato il sonoro di un film statunitense: Argo.
Poi però succede un
fatto straordinario che esce dai soliti circuiti produzione-festival-premio e
va al di là del successo in sala. Succede che un piccolo documentario riesca a portare
un grande cambiamento nel pueblo dove
è stato filmato. A Cuates de Australia, una località del municipio di Cuatro
Ciénegas, nello stato di Coahuila, gli abitanti erano costretti a spostarsi
nella stagione secca a causa delle avverse condizioni atmosferiche e sociali.
Durante questo esilio forzato, uomini, donne, anziani e bambini attendevano l’arrivo
delle prime gocce di pioggia per tornare alla loro terra. Almeno finché il
regista messicano Everardo González non gira Cuates de Australia (uscito nelle sale messicane l’8 febbraio 2013)
documentando l’esodo stagionale di questo popolo.
Grazie al suo film –
vincitore nel 2012 dei festival di Los Angeles e Guadalajara – nella località si
è costruito un pozzo, e oggi la gente può aprire il rubinetto e avere finalmente
acceso all’acqua. Magari in Italia, in Svezia o in Giappone nessuno ha sentito
parlare di questa produzione cinematografica messicana, però per i 131 residenti di Cuates de Australia ha rappresentato un vero
miracolo.
(uscito nel febbraio 2013 su Mexican Radio: una reporter in terra di mariachi, il blog che pubblico ogni mese su Freequency, la rivista per iPad che si può scaricare gratuitamente qui)
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