mercoledì 21 maggio 2014

Rivoluzioni a suon di fragole, acidi e hamburger

Strawberry Fields Forever è il titolo di un brano registrato dai Beatles alla fine del 1966 e pubblicato all’inizio del 1967. Scritta da John Lennon e considerata una delle migliori canzoni della storia del pop, ha finito per dare il nome a un’area (di 10.000 mq) del Central Park, a New York, dedicata alla memoria del suo autore. Concepito dall’architetto paesaggista Bruce Kelly, il Strawberry Fields Memorial è stato inaugurato in occasione del quarantacinquesimo anniversario della nascita di Lennon, il 9 ottobre 1985, in presenza della vedova Yoko Ono. E si trova proprio lì, a pochi passi da dove “l’uomo più famoso di Gesù” veniva ucciso dai colpi di pistola e follia di Mark David Chapman l’8 dicembre 1980.

Nel 2006, quando Strawberry Fields Forever compiva quarant’anni, in occasione dell’anniversario della sua morte, a Puebla de Zaragoza il cantante riceveva gli onori per un’altra canzone, Give Peace a Chance. Se tutti conoscono il mosaico in bianco e nero (donato dal Comune di Napoli) che incornicia la scritta Imagine nel celebre parco newyorkese, pochi sanno che in questa città del Messico centro-orientale c’è una strada dedicata all’ex Beatle. È un vicolo che si trova sulla 3 oriente, tra 2 e 4 sud, nel barrio los sapos, al centro di Puebla; è talmente piccolo e sconosciuto che non ha un nome, ma se chiedi a qualcuno, a chiunque, ti risponderà che si chiama plaza John Lennon o calle John Lennon. Il perché non è dato saperlo. Pare che prima che venisse installata la targa quel varco era già conosciuto come via John Lennon perché frequentato da artisti, intellettuali, bohémien, hippie e pacifisti.

Quando lo scorso marzo sono andata a Puebla per il Tianguis turístico (la più grande fiera del turismo dell’America Latina), ho passato un pomeriggio a passeggiare tra le bancarelle del mercato etno-gastronomico di “vicolo John Lennon” chiedendo a destra e sinistra quale fosse il motivo del nome. “Che io sappia” mi dice un mercante d’oggetti da collezione, tra cui un vinile dei Beatles in bella vista, “qui Lennon non si è mai visto. I Queen sì, sono venuti a suonare a Puebla nel 1981, ma i Beatles non sono mai passati di qui, e se lo hanno fatto nessuno se n’è accorto”. Poi in vena di confidenze mi dice: “Ho saputo, invece, che sono stati a Oaxaca, ma anche lì non ci sono le prove perché pare fossero andati a provare i famosi funghi allucinogeni di María Sabina”.

Sto per darmi per vinta quando vedo da distante un ragazzo con una chitarra e decido che è l’uomo che saprà rispondere alla mia domanda. In fondo è un musicista. Mi avvicino e mi rendo conto che imbraccia un charango e che sul viso porta i segni del trucco di quello che potrebbe essere il Movimento Hare Krishna, tant’è che quando gli chiedo di Lennon m‘inizia a parlare di George Harrison, di come i testi delle sue canzoni fossero pro-vegetarianismo, della rivoluzione del cucchiaio, del sacrificio animale e alla fine mi vende un hamburger vegetariano per 15 pesos prima di indicarmi dove si trova la targa con la dedica. Qualche morso più tardi mi trovo di fronte alla scritta: “A John Lennon, per il suo contributo musicale, culturale e umanitario al mondo”. Non avrò scoperto perché a Puebla c’è una via dedicata al leggendario musicista, ma in cambio ho mangiato uno degli hamburger più buoni della mia vita.

(uscito nell'aprile 2013 su Mexican Radio: una reporter in terra di mariachi, il blog che pubblico ogni mese su Freequency, la rivista per iPad che si può scaricare gratuitamente qui


La cattiva maestra

Il SNTE (Sindacato nazionale dei lavoratori dell’educazione) è il maggiore sindacato dell’America Latina che con circa un milione e 500mila iscritti ha permesso alla sua leader indiscussa da più di due decadi – Elba Esther Gordillo, anche detta la maestra – di godere della posizione di donna più potente del Messico. 

Personaggio da sempre scomodo, temuto e protetto dai governi passati, la maestra ha regnato indisturbata da quando è stata “incoronata” dal polemico presidente Carlos Salinas de Gortari il 23 aprile 1989. Forte dei suoi sudditi che per tanti anni hanno significato voti da scambiare per favori, Elba Esther ha fatto inciuci a destra e manca, stringendo alleanze persino con il PAN – Partido Acción Nacional –sostenuta a occhi bendati da una buona fetta di quel milione e mezzo di lavoratori dell’educazione che rappresentava. Tutto questo mentre l’istruzione scolastica in Messico colava a picco. 

Nel sistema dominato dal sindacato della Gordillo, la cattedra può essere venduta o addirittura ereditata con il risultato che molti insegnanti hanno un livello di istruzione al limite dell’inaccettabile, alcuni non hanno neanche il diploma di scuola superiore. Lo stesso sistema chiude un occhio di fronte all’alto grado di assenteismo dei maestri e il bassissimo livello di apprendimento degli alunni. In uno studio condotto nel 2009, in una scala da 1 a 6 (dove 6 sta per ottimale) gli studenti di 15 anni erano al livello 1 in matematica e 2 in scienze e spagnolo. 

Un problema che nel 2012 viene esposto in ¡De Panzazo! in cui il regista Juan Carlos Rulfo e il giornalista Carlos Loret de Mola scoperchiano il vaso di Pandora incolpando da una parte il sindacato di non interessarsi ai problemi del sistema educativo del paese e dall’altra il governo di cedere alle sue pressioni. Allora la maestra si era detta oltraggiata dal documentario e aveva iniziato una personale crociata perché il film non venisse distribuito, salvo vederlo arrivare in sala esattamente un anno fa. Tuttavia, la Gordillo avrebbe regnato ancora indiscussa anche durante il sessennio di Peña se non fosse arrivata la batosta martedì scorso. 

Il 26 febbraio Elba Esther viene arrestata per essersi appropriata indebitamente di più di 2 miliardi di pesos, circa 119 milioni di euro provenienti dalle quote sindacali, per coprire le sue spese personali: una dozzina di operazioni di chirurgia estetica, proprietà immobiliari in Messico e negli Stati Uniti, viaggi in aerei privati, shopping sfrenato in boutique esclusive neanche fosse una stella del cinema. 

Ironia della sorte, il suo arresto – ordinato dal PRI che l’ha vista nascere – arriva all’indomani della promulgazione da parte del governo di Peña della riforma al sistema educativo che limita l’enorme influenza che il sindacato ha avuto finora. E dire che qualcuno pensava che la Gordillo avesse venduto l’anima al diavolo. O chissà, magari ora ci sta giocando a scacchi dietro le sbarre.

(uscito nel marzo 2013 su Mexican Radio: una reporter in terra di mariachi, il blog che pubblico ogni mese su Freequency, la rivista per iPad che si può scaricare gratuitamente qui


Il miracolo del cinema indipendente

Il 2007 fu un’ottima annata per il Messico. Alla gala degli Oscar, la notte del 25 febbraio, il (nuovo) cinema messicano veniva ufficialmente riconosciuto da Hollywood e dal mondo intero con ben dieci esponenti candidati al prestigioso premio: l’attrice Adriana Barraza, lo sceneggiatore Guillermo Arriaga, i registi Alejandro González Iñárritu, Alfonso Cuarón e Guillermo del Toro, i direttori della fotografia Guillermo Navarro ed Emmanuel Lubezki, lo scenografo Eugenio Caballero, il montatore Alex Rodríguez e il tecnico del suono Fernando Cámara.

Si credeva, allora, che il cinema nazionale avrebbe dato molto di più negli anni a seguire, che avrebbe scoperto e lanciato a livello internazionale nuovi talenti per rivivere, in tempi moderni, la famosa Época de Oro. Invece, a parte gli applausi per Biutiful di Iñárritu, entrato nella cinquina dei nominati al miglior film straniero nel 2010, l’entusiasmo è andato via via scemando, tra una pandemia influenzale  H1N1  e sei anni di necrologi  60.000 morti (ufficiali) risultati dalla guerra al narco di Felipe Calderón.

Non che si sia smesso di produrre film da questa parte del mondo, solo che le produzioni cinematografiche messicane hanno attirato meno l’attenzione dell’industria internazionale. Fatta eccezione per Cannes, che quest’anno ha premiato Carlos Reygadas come miglior regista di Post Tenebras Lux e Después de Lucía di Michel Franco come miglior film nella categoria Un Certain Regard, in altri circuiti gli addetti ai lavori messicani non sono riusciti a ricevere la stessa accoglienza (anche se va detto che un totale di quarantadue produzioni nazionali hanno guadagnato qualche premio in sordina in giro per il mondo). Tant’e che alla corsa agli Oscar partecipa il solo José Antonio García, che con John Reitz e Gregg Rudloff ha firmato il sonoro di un film statunitense: Argo.

Poi però succede un fatto straordinario che esce dai soliti circuiti produzione-festival-premio e va al di là del successo in sala. Succede che un piccolo documentario riesca a portare un grande cambiamento nel pueblo dove è stato filmato. A Cuates de Australia, una località del municipio di Cuatro Ciénegas, nello stato di Coahuila, gli abitanti erano costretti a spostarsi nella stagione secca a causa delle avverse condizioni atmosferiche e sociali. Durante questo esilio forzato, uomini, donne, anziani e bambini attendevano l’arrivo delle prime gocce di pioggia per tornare alla loro terra. Almeno finché il regista messicano Everardo González non gira Cuates de Australia (uscito nelle sale messicane l’8 febbraio 2013) documentando l’esodo stagionale di questo popolo. 

Grazie al suo film – vincitore nel 2012 dei festival di Los Angeles e Guadalajara – nella località si è costruito un pozzo, e oggi la gente può aprire il rubinetto e avere finalmente acceso all’acqua. Magari in Italia, in Svezia o in Giappone nessuno ha sentito parlare di questa produzione cinematografica messicana, però per i 131 residenti di Cuates de Australia ha rappresentato un vero miracolo.

(uscito nel febbraio 2013 su Mexican Radio: una reporter in terra di mariachi, il blog che pubblico ogni mese su Freequency, la rivista per iPad che si può scaricare gratuitamente qui) 


Come in un film di Salvatores

“In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare” - citazione del filosofo francese Henri Laborit ripresa nel film premio Oscar di Gabriele Salvatores, Mediterraneo.

Quando penso a Mediterraneo non posso non pensare all’ultima scena, quella delle melanzane, in cui il sergente Lorusso di Diego Abatantuono dice al tenente Montini e all’attendente Farina: “Non si viveva poi così bene in Italia. Non ci hanno lasciato cambiare niente. E allora... e allora gli ho detto: ‘Avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice’. Così gli ho detto. E sono venuto qui...”

Tra italiani (emigrati) è facile ritrovarsi a fare questi discorsi quando ci si incontra per il mondo. A me l’ultima volta è successo poco più di un mese fa a Mazunte, a circa 80 chilometri a sud di Puerto Escondido – quello di Salvatores – quando ho fatto la conoscenza del bassista che suona con la regina di Oaxaca, la cantante Lila Downs. Ero nel backstage in attesa di intervistarla quando appare Giovanni Buzzurro e tra la folla accalcata di fronte al camerino riesco a gridargli da una parte all’altra della coda, “Siciliano, eh?”, e lui sorridente, “Sì, e tu di dove sei?”.

Poco dopo riusciamo a parlare con un po’ più di calma. Mi racconta che in Italia faceva parte della band Tinturia con la quale ha diviso il palco con centinaia di artisti, da Roy Paci ai Bluvertigo. Poi le cose hanno iniziato ad andare di male in peggio nel mondo della musica. Sono cinque anni che vive in Messico. Ha appena vinto un Grammy Latino per aver suonato nel miglior album di musica folclorica di Lila Downs, Pecados y milagros, e dal vivo accompagna anche il trovador messicano Fernando Delgadillo.

Come molti altri, anche Giovanni non ha nessuna intenzione di tornare a vivere in Italia. D’altronde Messico è una delle mete preferite dello straniero alla ricerca del sogno americano. Agli italiani che vivono qui spesso manca solo la cucina, i sapori del mediterraneo. “Ogni volta che andiamo a suonare in Europa con Lila, approfitto per andare a trovare la mia famiglia, i miei amici, ma dal prossimo anno ci porta in giro per l’America Latina mentre l’altra banda che l’accompagna negli Stati Uniti si fa il turno europeo. Non ci potrò andare più così spesso, ma va bene così. Qui ci sto da dio. 

Ogni tanto” continua Giovanni, “sento i miei vecchi compagni di banda. Alcuni suonano nei locali per 50 euro a sera. 50 euro! E che ci fai, in Italia?”. “In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”, penso. 50 euro non sono neanche abbastanza per quello.

(uscito nel gennaio 2013 su Mexican Radio: una reporter in terra di mariachi, il blog che pubblico ogni mese su Freequency, la rivista per iPad che si può scaricare gratuitamente qui


sabato 10 maggio 2014

Oaxaca: sinfonia di una città

Mentre a Roma si celebrava il festival internazionale del film, a Oaxaca si spegneva la prima candelina dell’associazione OaxacaCine che in occasione della seconda edizione del festival Alcalá ha portato nella capitale dello stato, in collaborazione con l’Istituto Goethe, la XI settimana del cinema tedesco. Dal lunedì al venerdì nella città messicana il tedesco è l’unica lingua parlata sul grande schermo del Teatro Macedonio Alcalá, dove si sono proiettati in ordine Halt Auf Freier Strecke di Andreas Dresen, This Ain't California di Marten Persiel, Barbara di Christian Petzold, Der Fluss war einst ein Mensch di Jan Zabeil e Totem di Jessica Krummacher. 

Solo pochi giorni prima dell’inizio del festival, quando in città regnava ancora la Fiera Internazionale del Libro, mi ero trovata a condividere il tavolo di un ristorante del centro e un delizioso pranzo a base di mole negro (una delle specialità culinarie dello stato) con lo scrittore tedesco Stefan Kiesbye, autore di Nebenan ein Mädchen, un romanzo nero quanto la salsa che affogava il pollo nel mio piatto. Tra un boccone e l'altro e un caballito di mezcal salta fuori che secondo Stefan, che si è da poco trasferito a Portales, New Mexico, dopo aver vissuto a lungo a Los Angeles, nella Berlino capitalista si viveva molto meglio prima della caduta del Muro. “I cittadini di Berlino Ovest ricevevano una paga mensile a parte solo per il fatto di vivere lì. E circolava molta più arte, molta più musica… Poi tutto è cambiato”.  

Le osservazioni di Stefan mi rimbombano in testa mentre qualche giorno dopo assisto alla proiezione di This Ain't California, il documentario che narra di un gruppo di skaters ai tempi della repressione da parte del governo che considerava quella passione giovanile un “virus proveniente dal marketing statunitense”. O mentre seguo affascinata la storia di Barbara, un medico ribelle che per punizione viene trasferita dalla Stasi nell’ospedale di un piccolo villaggio di provincia dove è controllata giorno e notte. Negli anni ’80. Quando dall’altra parte del muro si viveva “molto meglio”.

La chiusura del festival è riservata a Berlino - Sinfonia di una grande città di Walther Ruttman musicato in vivo dalla Kräut Ensamble diretta da uno dei più famosi chitarristi della scena indie rock messicana,  Álex Otaola. Mentre le immagini del film muto scorrono sullo schermo mostrando scene di vita (urbana) quotidiana della Berlino di fine anni ’20, sul palco i musicisti creano la sinfonia perfetta per ogni atto. Il pubblico è avvisato sin dall’inizio: può partecipare agitando in aria mazzi di chiavi, sgonfiando fischianti palloncini colorati e lasciando suonare il cellulare in un caos sonoro che fa cadere un altro muro: la quarta parete del teatro Macedonio Alcalá.

(uscito nel dicembre 2012 su Mexican Radio: una reporter in terra di mariachi, il blog che pubblico ogni mese su Freequency, la rivista per iPad che si può scaricare gratuitamente qui


venerdì 9 maggio 2014

¡Que viva la literatura!

“Preferisco leggere o vedere un film piuttosto che vivere... nella vita non c'è una trama” - Groucho Marx.


L'altro giorno nella città di Oaxaca si è inaugurata la 32ª Feria Internacional del Libro che quest'anno all'insegna del motto ¡Que viva la literatura!, oltre a ospitare un centinaio di autori ed eventi, ha omaggiato lo scrittore, poeta e traduttore messicano José Emilio Pacheco. 

Nell'incontro che si è tenuto nella capitale dello stato di Oaxaca lo scorso primo novembre (nel bel mezzo della festa dei morti) l'opera dell'autore di Le battaglie nel deserto è stata riconosciuta da un piccolo gruppo di colleghi e amici composto da Sergio Pitol, Margo Glantz, Juan Villoro e Marcelo Uribe. Seduti comodamente in sofà sul palco dell'elegante teatro Macedonio Alcalá, questi esponenti della letteratura messicana si sono lanciati a turno in calorosi discorsi. 

La Glantz ha raccontato di un viaggio intrapreso con l'amico e Carlos Monsiváis in Cile, di come i due gentiluomini facessero a gara a chi conoscesse il maggior numero di versi di Pablo Neruda, Enrique Lihn, Osvaldo Díaz Casanueva e Vicente Huidobro, mentre lei stava a guardarli a bocca aperta. “Poi mi chiedevano chi dei due avesse migliore memoria. Quando dicevo José Emilio, Carlos si arrabbiava. Quando dicevo Carlos si arrabbiava José Emilio... Credo sia stato uno dei viaggi più divertenti della mia vita, anche se poche volte il mio cervello è stato tanto bombarbato da erudizione e intelligenza. Tornai in Messico convinta che Schopenhauer avesse ragione nel dire che 'La donna è un animale dai capelli lunghi'”. 

Dopo l'intervento della scrittrice, Pitol ha sottolineato come José Emilio Pacheco abbia affrontato tutti i generi letterari e che, come gli uomini del Rinascimento, avesse intuito ben presto che la saggezza sta nell'integrare tutto in tutto, il grandioso con il minuscolo, l'ermetismo con la grazia, il pubblico con l'invisibile. “Il mio debito con l'amicizia e l'opera di questo signore è enorme... A soli 19 anni Pacheco già mostrava una maturità nella scrittura, incluso mi sembrava inconcepibile che qualcuno che avesse meno di 20 anni potesse aver prodotto con tanta naturalezza storie tecnicamente ambiziose, con un ritmo e dominio del linguaggio perfetti e un'architettura solida e allo stesso tempo poco visibile”. 

Ma forse il discorso più bello è stato quello di Juan Villoro, che era appena un bambino quando José Emilio era già grande e rinomato. Lo scrittore e giornalista messicano ha dichiarato che prima di Pacheco e del racconto El parque hondo, nella letteratura messicana i bambini erano puniti o assenti (“arrivavano, facevano rumore e se ne andavano”). Ha ricordato che grazie a José Emilio la cultura popolare è entrata a far parte della letteratura, perché l'autore di Il principio del piacere è stato il primo a inserire una sveglia di Bugs Bunny in un'opera e le parole Tae Kwon Do in una storia e a scoprire chi fosse il lottatore mascherato El Santo.



“Preferisco leggere o vedere un film piuttosto che vivere... nella vita non c'è una trama” diceva Groucho Marx. Eppure a sentire narrare la vita di uno scrittore come José Emilio Pacheco viene da pensare che Marx non avesse poi così tanta ragione.

(uscito nel novembre 2012 su Mexican Radio: una reporter in terra di mariachi, il blog che pubblico ogni mese su Freequency, la rivista per iPad che si può scaricare gratuitamente qui)


Una canzone per #YoSoy132

Antefatto: in seguito alla cacciata dall'Università Iberoamericana di Enrique Peña Nieto (vedi puntata precedente, Il calcio e la politica) e alle successive dichiarazioni del Partito Rivoluzionario Istituzionale che non si trattava di studenti bensì di un gruppo di affiliati del rivale Andrés Manuel López Obrador, alcuni giovani universitari si sono ribellati e, tesserino alla mano, sono andati a protestare di fronte alla sede di Televisa, rea di aver avvalorato le false affermazioni del PRI. 

Poco dopo Rodrigo Serrano, iscritto alla facoltà di comunicazione, pubblica un tweet in cui dice: “Sono uno studente della Ibero, non sono un porro (membro di un gruppo d'urto, Ndt), non sono un acarreado (chi provoca danni, Ndt), nessuno mi ha addestrato, sono orgoglioso di quello che hanno fatto i miei compagni e sono contro Peña Nieto”. Il giorno dopo il ragazzo organizza un evento in Facebook in cui invita gli universitari a mandargli filmati in cui danno voce all'indignazione. Ne arrivano 132. Con il materiale Serrano monta Yo soy 131 (perché uno dei mittenti all'ultimo ci ripensa) e lo pubblica su Youtube. Il video diventa un trending topic mondiale trasformando quella che era iniziata come una piccola protesta in un fenomeno internazionale. Al gruppo, che adotta il nome #YoSoy132 come simbolo di una nuova lotta studentesca apartitica, si uniscono i colleghi delle università di tutto Messico, intellettuali di sinistra, artisti e cantanti – tra i quali Julieta Venegas, Ximena Sariñana, Carla Morrison, Sonidero Mestizo e Natalia Lafourcade – che un sabato di giugno si esibiscono in un concerto per sostenere i “132”.

Il resto è storia, una storia amara considerato che nonostante le accuse – e le prove – di una elezione sporca, a fine agosto il Tribunale Federale Elettorale ufficializza la vittoria di Enrique Peña Nieto. Ma #YoSoy132 non si dà per vinto. Dopo aver organizzato una marcia funebre all'indomani della formalizzazione presidenziale, il 2 ottobre proclama uno sciopero nazionale in ricordo del massacro di Tlatelolco. Già di prima mattina membri del movimento studentesco occupano la città universitaria per commemorare gli omicidi commessi dal Governo Federale quarantaquattro anni prima. 

Per non dimenticare uno dei più sanguinosi massacri della storia del Messico, quando la sera del 2 ottobre 1968, l'esercito e la polizia sparano contro le migliaia di studenti che manifestavano in Plaza de las Tres Culturas per chiedere maggiore libertà di espressione, così come oggi la chiedono ad alta voce i giovani di tutto Messico. Perché, come canta Natalia Lafourcade in Un derecho de nacimiento, scritta per #YoSoy132, non siamo nati senza causa, non siamo nati senza fede. Questo è un diritto di nascita, è il motore del nostro movimento. Perché rivendichiamo la libertà di pensiero, se non lo facciamo è perché stiamo morendo.

(uscito nell'ottobre 2012 su Mexican Radio: una reporter in terra di mariachi, il blog che pubblico ogni mese su Freequency, la rivista per iPad che si può scaricare gratuitamente qui


Il calcio e la politica

Nello stesso giorno in cui in Ucraina si disputava la finale di Euro 2012, in Messico si decidevano le sorti del paese con le elezioni presidenziali. Nel pomeriggio i giocatori di Spagna e Italia correvano dietro a una palla, si facevano falli a vicenda, sudavano, tentavano tiri da lontano, da vicino e mettevano in porta uno, due, tre quattro gol agli avversari azzurri. A partire delle 8 del mattino più di 49 milioni di messicani si recavano alle urne per votare il proprio candidato tra Andrés Manuel López Obrador, Josefina Vázquez Mota, Gabriel Quadri ed Enrique Peña Nieto. Sul campo verde di Kiev la lotta corpo a corpo, sul campo politico dell'intero paese messicano la lotta dei conteggi che poco dopo la mezzanotte davano per certa la vittoria di Enrique Peña Nieto. 

Nei mesi precedenti al 1° luglio 2012, il candidato del Partido Revolucionario Institucional (71 anni consecutivi di governo corrotto – 1929-2000 – che lo scrittore Mario Vargas Llosa, Premio Nobel per la letteratura, aveva chiamato la “dittatura perfetta”), era stato dato come favorito da tutti i sondaggi. Nelle settimane precedenti al 1° luglio centinaia di video postati su Youtube denunciavano l'acquisto di voti da parte del PRI in cambio di 500 pesos (poco più di 30 euro). Il parallelismo tra il calcio e la politica in questo caso è facile, considerato lo scandalo scommesse. Ma c'è un'altra analogia forse più sottile, che lega Messico e Italia, il calcio e la politica. 

Come un celebre imprenditore italiano poi divenuto presidente dell'Associazione Calcio Milan e in seguito dello stivale, anche Enrique Peña Nieto viene dalla televisione. Non ne è proprietario, ma Televisa (in cambio di denaro e favori) è stata la sua più grande sostenitrice, assicurandogli una copertura favorevole nei notiziari più importanti e nei programmi di intrattenimento mentre allo stesso tempo screditava Andrés Manuel López Obrador, il rivale più temuto. Tanto che nella sua tournée per il paese, il giovane candidato priísta veniva accolto dalle donne come un divo di Hollywood. Come il celebre imprenditore milanese, anche Enrique Peña Nieto è convolato in seconde nozze con una attricetta di serie b, tale Angélica Rivera, conosciuta anche come La Gaviota per via di una telenovela di cui è stata protagonista (si dice che la prima moglie, morta di una strana malattia, sia stata fatta fuori dal PRI). E come il celebre imprenditore, anche il nuovo presidente del Messico sa fare buon viso alle situazioni più imbarazzanti. 

Lo scorso dicembre alla Feria Internacional del Libro de Guadalajara, quando durante una conferenza stampa gli chiedevano quali tre libri lo avessero segnato politicamente, El copete (il soprannome che gli è stato affibbiato per via della pettinatura con ciuffo) colto alla sprovvista – perché che vuoi che ti chiedano a una feria del libro – assicurava che la Bibbia, della quale aveva letto solo alcuni passaggi, era stata importante per la sua formazione politica, confondeva titoli di libri e autori e si arrampicava sugli specchi per cinque lunghissimi minuti. 

Come se non bastasse, qualche mese dopo, ospite dell'Università Iberoamericana, veniva praticamente cacciato dall'ateneo al grido degli studenti “la Ibero non ti vuole” o “codardo” o ancora “Atenco non si dimentica!” (ritenendolo colpevole del massacro di San Salvador Atenco) e lui, un attimo prima di entrare nell'auto blu e darsi alla fuga, si limitava a sorridere falsamente mostrando il pollice proprio come avrebbe fatto il suo collega italiano. O forse no. No, certo, adesso che ci penso l'altro avrebbe sorriso falsamente e mostrato il dito medio.

(uscito nel settembre 2012 su Mexican Radio: una reporter in terra di mariachi, il blog che pubblico ogni mese su Freequency, la rivista per iPad che si può scaricare gratuitamente qui

Enrique Peña Nieto alla Feria Internacional del Libro (GDL, México)

Good morning, Oaxaca!

Nell'era dei tweet, delle wiki-notizie e dei social network resta ancora incredibile la potenza di informazione e la capacità di aggregazione di un mezzo tecnologicamente vecchio come la radio. Lo scorso 15 giugno la tempesta tropicale Carlotta si avvicinava rapidamente alla costa del Pacifico Orientale per trasformarsi nel giro di mezza giornata in un uragano di categoria 1 e successivamente 2, che ha fatto tremare lo stato di Oaxaca, portando con sé venti massimi di 112 chilometri all'ora e raffiche fino a 136 chilometri all'ora. 

Alle 5.40 pm l'aeroporto internazionale di Huatulco chiudeva i battenti, poco prima che la furia del ciclone iniziasse a buttare giù alberi, pali della luce e spazzasse via i tetti in lamiera delle precarie case delle zone rurali. Circa 220.000 abitazioni sono rimaste all'improvviso senza energia elettrica, uomini e donne e bambini si sono stretti nell'oscurità totale, sotto a una pioggia torrenziale pregando che l'uragano levasse le ancore senza fare troppi danni. Immaginate il buio cieco di una notte tremante piena di paura e il silenzio sordo rotto dal rumore dell'impeto del ciclone. 

L'unica voce che si poteva udire lungo la costa del Pacifico (grazie a un impianto elettrico di emergenza) era quella di Omar Gasga che con l'edizione straordinaria del suo notiziario La Voz de la Noticia, ha rappresentato per molti una sorta di sollievo, l'unico modo per sapere che stava succedendo fuori dal loro piccolo mondo disastrato. Centinaia di messaggi e telefonate sono arrivate alla stazione dove il direttore delle notizie di 102.3FM ¡La Voz del Pacífico Sur! placava gli animi, raggiungeva pueblos sperduti nello stato di Oaxaca – nella sierra, lungo la costa, nel mezzo del nulla – dove in migliaia, raccolti nelle tenebre, chiusi nel bagno o nello scantinato, ascoltavano il radio giornale con piccoli apparati a batteria, stereo o cellulari. 

Da San Mateo Piñas, Pluma Hidalgo, Pinotepa de Don Luís, San Agustín Loxicha, Santo Domingo de Morelos, San Pedro El Alto chiamavano per raccontare, la voce rotta dall'affanno, cosa stava accadendo là fuori (che la corrente elettrica era venuta a mancare, che il tetto della casa era volato via, che la caduta di alberi aveva bloccato le strade, che avevano perso i loro pochi beni, che due bambine erano morte seppellite in casa da una frana), per sentirsi meno soli e per dare voce alla voce della notizia. A loro volta Oaxaqueños emigrati all'estero, dagli Stati Uniti – persino dall'Indonesia – sintonizzati attraverso internet sulla pagina ufficiale di ¡La Voz del Pacífico Sur!, chiamavano in cabina per sincerarsi delle condizioni di questa o quella comunità, perché non potevano raggiungere telefonicamente i loro familiari. 

Man mano che l'uragano si spostava e l'intensità diminuiva fino a retrocedere di una categoria per poi tornare allo stato di tempesta tropicale, le telefonate si riducevano e alle 12.40 am del 16 giugno, terminata l'ultima delle cinque edizioni straordinarie del notiziario, con una voce afona Omar Gasga salutava l'auditorio dopo cinque ore consecutive di diretta radiofonica. Con lo spirito di Robin Williams in un film di Barry Levinson del 1987, avrebbe anche potuto chiudere con un "Good morning, Oaxaca".

(uscito nel luglio 2012 su Mexican Radio: una reporter in terra di mariachi, il blog che pubblico ogni mese su Freequency, la rivista per iPad che si può scaricare gratuitamente qui


Café Pluma... what else?

Il Café Pluma è un caffè messicano organico riconosciuto a livello internazionale. Gli europei – con finlandesi, svedesi e svizzeri in testa – sono i principali clienti di questo prodotto del quale consumano più di dieci chili all'anno a persona. Contraddistinto da un aroma fruttato, pungente, di carattere, viene coltivato nella zona della Cuenca del Río Copalita, nello stato di Oaxaca, dove la composizione naturale della terra, l'altitudine, la vicinanza al mare e le condizioni ecologiche del bacino del fiume ne consentono la crescita ottimale e di conseguenza l'alta qualità. 

Per una serie di motivi che non vi sto a raccontare, all'inaugurazione della 4ª edizione della Expo Fiera del Caffè che ogni anno si tiene a Pluma Hidalgo sono stata nominata ambasciatrice del Café Pluma. Io, che proprio di recente ho dovuto rinunciare alla mia dose quotidiana di caffè per una stupidissima gastrite e che ormai bevo quasi solo decotto al carciofo. Però non potevo rinunciare all'idea di competere con George Clooney che ogni giorno, quando ancora vivevo in Italia, mi guardava per qualche secondo dal piccolo schermo con aria di sfida prima di uscirsene con un “what else?”. Tuttavia, a differenza del caffè che promuoveva l'ultimo divo di Hollywood, Pluma è coltivato in maniera naturale, in piena condivisione dei dettami dell'agricoltura biologica e non viene prodotto attraverso manodopera minorile, debitoria, forzata o proveniente da traffico di esseri umani. 

Ciononostante non ha ancora ricevuto la denominazione di origine il che implica che i produttori sono costretti a venderlo a 130 pesos al chilo, quando il commerciante smercia quello che i poeti chiamavano “il nettare nero dei sogni bianchi” a 20/30 pesos la tazza (notare che con un chilo di grani si producono 100 tazze di caffè). Come se non fosse abbastanza, tutto ciò permette a una nota catena di fast food di spacciare per Café Pluma un caldo liquido nero quando magari è solo acqua sporca. E dire che dai chicchi di caffè dipendono più di tre milioni di messicani coinvolti nelle attività di semina e raccolta. È il sesto frutto agricolo di maggiore esportazione e da tempi immemori il Messico lotta quotidianamente con Brasile, Colombia, Vietnam, Etiopia, Guatemala, Honduras, Uganda e Indonesia per il primato nel mondo. Però tra tutti, Messico è il principale produttore di caffè biologico ed è un pioniere in questo senso.

Come ambasciatrice del Café Pluma ho ricevuto una corona, lo scettro e la responsabilità di mantenere alto il suo nome in attesa della denominazione di origine. E, ciliegina sulla torta, mi sono state date in dono due piantine di caffè che ho piantato nel minuscolo giardino di fronte alla mia casa, all'ombra di un albero, proprio sotto a una goccia persistente d'acqua dovuta a una perdita di una tuberia. L'ambiente ideale. L'altro giorno il ragazzino che passa a ritirarmi i rifiuti in cambio di 10 pesos e una manciata di biscotti, indica i due arboscelli e mi chiede cosa siano. “Sono piantine di caffè” gli dico e non faccio neanche in tempo ad aggiungere altro che replica, lasciandomi senza parole: “E quanto tempo ci vorrà perché tu possa bere una tazza di Nescafé?”.
Ok, George, per questa volta hai vinto tu.

(uscito nel giugno 2012 su Mexican Radio: una reporter in terra di mariachi, il blog che pubblico ogni mese su Freequency, la rivista per iPad che si può scaricare gratuitamente qui


giovedì 8 maggio 2014

Sauna Italia México - seconda parte

La storia si infittisce quando si viene a scoprire che Sebastien Cassez e Eduardo Margolis – un tipo ambiguo con le mani in pasta ovunque, dai prodotti di bellezza di Sauna Italia México che aveva in società con il fratello della presunta sequestratrice francese, alla ferramenta, dall'istruzione alla sicurezza – erano ai ferri corti. Secondo Sebastien Cassez, nel momento in cui gli comunica l'intenzione di sciogliere la società, il messicano avrebbe minacciato di rovinargli la vita. 

Il presunto ex agente del Mossad e impresario avrebbe dunque avuto legami diretti o indiretti con le parti coinvolte nel caso #FlorenceCassez: con il fratello di cui era stato partner insieme a Israele Vallarta – ex fidanzato di Florence e presunto leader della banda di rapitori Los Zodiaco con il quale Margolis avrebbe avuto anche degli incontri sessuali – con i funzionari delll'Agenzia Federale di Investigazione il cui capo era Genaro García Luna, l'attuale Segretario federale della pubblica sicurezza, con Televisa e (udite, udite) con Cristina Valladares, una delle vittime del sequestro imputato alla francese. 

In base ai risultati delle indagini degli avvocati e alla testimonianza di uno dei massimi esperti francesi del caso, la vittima era stata la donna di servizio del losco faccendiere. Infine, il fatto che l'impresario messicano avesse un'impresa più organizzata della polizia che agiva da intermediaria nelle negoziazioni con rapitori non fa che gettare luce su un caso ingarbugliato nel quale sono coinvolti interessi politici e personali.

Siamo sicuri che in questo momento, da qualche parte del mondo, qualcuno stia scrivendo una sceneggiatura sul caso #FlorenceCassez. La prima scena potrebbe essere quella dell'operativo poliziesco ripreso dalle telecamere del notiziario mattutino di Televisa condotto da Carlos Loret de Mola. Già me la immagino, e in fondo non è difficile, dopo averla vista e rivista su Youtube alla ricerca di nuovi particolari che ne invalidano la garanzia della diretta. 

Gli occhi spaventati e increduli della francesa che risponde confusa alle domande dell'inviato di Televisa, i colpi inferti ai fianchi di Israele Vallarta, al di sotto dell'inquadratura, il lamento soffocato dell'uomo e la domanda dello stesso inviato: “Perché si lamenta?”. “Perché mi hanno colpito”. “Chi l'ha colpita?”. Finché Vallarta, con gli occhi rivolti verso il basso nega: “Nessuno”. 

Il primo piano della francese dietro le sbarre e la sequenza dell'incontro (recente) nella prima sala della Corte Suprema di Giustizia dove si è discussa la proposta di un ministro di concedere la libertà immediata e assoluta a Florance Cassez. Negatale. Tutt'intorno gli intrecci politici e interessati di personaggi del mondo della televisione, impresari, sequestratori, ambasciatori, primi ministri e sequestrati a infittire una trama che si compie con la liberazione della francese.

Il finale perfetto, permettetecelo, lo ruberemmo a Schegge di paura, il thriller legale con Richard Gere e Edward Norton, che insegna: “Presto o tardi un uomo che indossa due facce dimentica qual è quella vera”.

(uscito nel maggio 2012 su Mexican Radio: una reporter in terra di mariachi, il blog che pubblico ogni mese su Freequency, la rivista per iPad che si può scaricare gratuitamente qui